Molto tempo prima, altrove: guardare e sentire.

Vittorio Caponcello[1], Gabriella Vincenti[2]

 

ABSTRACT

Lo scopo di questo lavoro è provare a stabilire un parallelismo tra due parti. L'ipotesi è che esista una somiglianza pur nella diversità, tra l'espressività delle forme d’arte e l'espressività dell'esperienze estetiche (aìsthēsis) così come avvengono nella situazione analitica di gruppo o individuale.

Va quindi letto come una sorta di luogo nel quale fermarsi per pensare ed esercitare il nostro orecchio e sguardo psicanalitico, per porre attenzione ad una "dimensione musicale" e ad una dimensione del "guardare per così dire pittoricamente" le immagini che passano e ripassano nella mente, nel "qui ed ora", sia della nostra analisi che in una situazione analitica. Dove dunque imparare ad avvertire una sorta di "apparato per pensare i pensieri" (Bion, 1962, 1967) ancora in formazione in attesa di emergere o meno sul palcoscenico della coscienza.

 

We can be afraid of expressing our straight thoughts wherever they come from because we’re afraid of the reception they will get.And then the poet, the painter, the musician implicite in each of us does not get expressed, for fear it will be destroyed it were. [3]

BION, 1985

 

La Psicoanalisi ha mostrato che ogni comprensione cognitiva ha uno sviluppo lungo e complicato, il quale viene prodotto come un processo inconscio – o nell’inconscio – molto tempo prima della possibilità di formulazione verbale, o meglio della formulazione razionale, del contenuto della coscienza, al posto di concetti chiari vi sono immagini con forte contenuto emotivo (pre-concezioni), che non vengono ‘pensate’, ma guardate per così dire pittoricamente.

CORRAO, 1985

 

Lo scopo di questo lavoro è provare a stabilire un parallelismo tra due parti. L'ipotesi è che esista una somiglianza pur nella diversità, tra l'espressività delle forme d’arte e l'espressività dell'esperienze estetiche (aìsthēsis) così come avvengono nella situazione analitica di gruppo o individuale.

Lo proponiamo quindi come una sorta di luogo nel quale fermarsi per pensare ed esercitare il nostro orecchio e sguardo psicanalitico, per porre attenzione ad una "dimensione musicale" e ad una dimensione del "guardare per così dire pittoricamente" le immagini che passano e ripassano nella mente, nel "qui ed ora", sia della nostra analisi che in una situazione analitica. Dove dunque imparare ad avvertire una sorta di "apparato per pensare i pensieri" (Bion, 1962, 1967) ancora in formazione in attesa di emergere o meno sul palcoscenico della coscienza. Bion sottolinea la necessità di restare a contatto con l'effetto che ha sulla coscienza il percepire anche con altri sensi; e quanto per il terapeuta o l’analista sia necessario essere dotati di una strumentazione che gli permetta di ‘apprendere dall’esperienza’, così come essa sta avvenendo in seduta. Si comprende bene pertanto la sua necessità di reinventare e costruire forme nuove di linguaggio anche non verbale, come la "Griglia", che lo aiutassero ad avvicinarsi quanto più possibile alla formazione delle prime istanze preverbali, presimboliche. Man mano infatti che in Bion aumentava la sua capacità di "stare" a contatto con la mente adimensionale il suo linguaggio psicanalitico acquisiva una preziosa qualità poetica vicina a quella che il bambino possiede in modo naturale.

In questo lavoro l'operazione che desideriamo compiere è affine e al contempo opposta a quella più comune di usare un’opera artistica per meglio comprendere le caratteristiche psichiche del suo autore; per creare, diciamo, una sorta di biografia psicodinamica dell’artista. Nel nostro caso, infatti, usiamo parti di opere d’arte per meglio individuare alcune esperienze che avvengono in psicoanalisi, concentrandoci sul sentire e non sentire[4] dell’opera artistica per creare un parallelismo con l’esperienza estetica della rêverie, con il sognare dell’ascolto, della testimonianza dell’analista; proviamo dunque ad effettuare un movimento di astrazione che vada dal dato sensibile dell’arte alla concettualizzazione dell’esperienza psicoanalitica.

Ciò che cerchiamo di descrivere è la rilevazione, in un dato momento, della formazione d’un apparato per pensare i pensieri che necessita ancora di altri livelli oltre il linguistico per esprimere il proprio funzionamento o per metterlo in atto (permetterlo in atto): sulla parola esso si appoggia, ma al contempo ne sfugge, esulando da un uso ‘normale’ della parola stessa e/o rifacendosi alle tracimazioni di altri sensi – vista, tatto, odorato, gusto, coscienza[5] (con i suoi corollari di: oscillazione PsßàD, simmetriaßàasimmetria (Matte-Blanco, 1975), passatoßàpresente, vero ßà falso, etc.)… – tra le parole ed i discorsi e la logica. Altri sensi intervengono nella sinestesia[6] di questo rudimentale apparato e lo muovono verso l’uso di forme espressive diverse, con lo scopo di incanalare o difendersi da quella certa quantità di perturbante, di traumatico, per gestire il quale ed a causa del quale esso è nato. È in natura di tale gestione che un registro sensitivo altro ne permette l’esprimersi depotenziato o esplosivo, integrato o scisso, contenuto o strabordante; destinato al pensiero o no.

Un apparato per pensare i pensieri di tale genere avrebbe quindi queste caratteristiche: (a) sarebbe in formazione; (b) sarebbe vicino o in relazione con l’atto poetico (nel senso: l’atto di fare (to forge) poesia); (c) si esprimerebbe in modo insaturo, non definito, esulando da una comprensione immediata; (d) si appoggerebbe su modalità concettuali e comunicative diverse da quella verbale; (e) in funzione di una propria (eventuale) pensabilità richiederebbe infine l’uso del linguaggio, cioè in funzione di una sua comprensione (to comprehend[7]) per affrontare l’angoscia (in appoggio alla parola, per mezzo della parola, pensiero) e/o per espellerla (in appoggio alla parola, per mezzo della parola, non pensiero): movimenti paralleli ma opposti. Un apparato per pensare di tal genere, dunque, sarebbe il correspettivo intrapsichico d’un processo (pre)cognitivo che può (o no) precedere un suo successivo chiarimento, o un insight, ma che già prima del suo essere verbalizzabile si manifesta con una sensazione di presenza sfumata, di presenza ‘in assenza’[8], tramite modalità sensoriali che si impongono sulla percezione e l’attenzione, nella rêverie.

 

SONORO

Gli altri luoghi prima delle parole

L’esperienza estetica del suono rappresenta la prima forma di appartenenza alla vita, prima che tutto accada. I suoni del corpo vengono accolti nell’intimità del nostro primo rapporto con l’altro, nella fusione dei corpi di madre e bambino: il sentire e il sentirsi dialogano senza parole, non vi sono silenzi ma pause di suono. Talvolta taglienti come lame i suoni stridono e diventano rumori; altre volte, invece, il respiro della madre culla e ristora il non ancora nato in un Adagio che non verrà dimenticato. Per parlare di ciò scegliamo di utilizzare gli studi di Mancia in merito alla presenza di una "memoria implicita" e di un "inconscio non rimosso" che si conservano in tracce senza forma e che fondano le radici della attività creativa dell’essere umano[9]: attraverso le prime esperienze estetiche il bambino compie il primo compito creativo, disegnando le prime proto rappresentazioni del proprio mondo interno che costituiranno poi un "nucleo inconscio del Sé".

Il corpo vivo dell’Altro, il suo respiro e le sue pulsazioni, sono il primo nutrimento per la creatività del bambino. Il ritmo e l’aritmia della gestazione costituiranno i primi elementi che potranno essere portati alla luce sotto altre forme solo se un accudimento materno adeguato (rêverie) sarà in grado di contenerli e renderli pensabili; diversamente verranno sepolti prematuramente, costituendo gli anelli di una catena di dolori antichi a cui si rimarrà legati.

Da dentro il corpo della madre proseguiamo in viaggio più lontano, alla ricerca di luoghi altrove, dove poter ricercare e trovare nuove sonorità che attraversino presente e passato. In questo lavoro s’incontrano le opere di artisti cileni in esilio, in fuga, pezzi di poesia e musica che ci hanno portato a cercare tracce familiari in luoghi altri, lontani e vicini al contempo, nel sud e nel centro America, in altri sensi e rappresentazioni diversi dal verbale. La ricchezza evocativa di ‘Todo Cambia’ nell’interpretazione di Mercedes Sosa – la sua vocalità roca, gioiosa e malinconica al tempo stesso – ha portato in fuga anche me verso un luogo altro, dove poter recuperare attraverso l’udito emozioni, ricordi e fantasie.

Quando Julio Numhauser scrive Todo Cambia, Pinochet aveva già imposto una dittatura dove ogni libertà era stata azzerata in favore di un potere unico e assoluto. Todo cambia diventa presto un simbolo musicale e narrativo della resistenza e della lotta per le libertà, un racconto in cui il dolore per la separazione e la speranza di libertà sembrano narrare un ossimoro apparentemente inconciliabile, dove vita e morte si sfidano alla ricerca di un luogo quieto, immaginario e familiare (Pero no cambia mi amor/ por mas lejos que me encuentre/ ni el recuerdo ni el dolor / de mi tierra y de mi gente)[10].

La musica cilena rappresenta la possibilità di una fuga verso luoghi altri (Y lo que cambió ayer/ tendrá que cambiar mañana/ así como cambio yo /en esta tierra lejana[11]): i rumori interni dolorosi si trasformano, divenendo melodie; l’armonia dei suoni ricostruisce ciò che era frammentato, piccole unità di suono si inseguono, accostandosi e unendosi, formando uno stabile ritornello in cui il cambiamento che si desidera viene evocato, invocato e infine trovato: "Cambia todo cambia". Lo stesso desiderio si intravede nel vigoroso spirito artistico della cantante cilena Violeta Parra, simbolo femminile di perdite e lotte, la quale, utilizzando il canto e una chitarra testimonia in Gracias a la vida l’eterno duello degli opposti – vita e morte; gioia e dolore – che coesistono in un canto che è un ‘canto’ comune a tutti gli individui[12], dove le parole e la musica nate dalle viscere di esperienze dolorose si fanno spazio come parole a servizio di tutti.

Il suono, la fuga e il cambiamento sono elementi che attraversano la vita dell’artista esule in cerca di speranza. Lo stesso accade quando nello spazio altro della stanza d’analisi, nell’incontro tra due o più persone, i suoni del corpo (respiri, sospiri, movimenti del corpo) si mescolano al silenzio che viene accolto nelle sua specifica coloritura. Tali suoni come strumenti di una orchestra si esibiscono nella stanza, in armonia, a formare intrecci emotivi che costituiscono la trama dell’incontro. Si potrebbe ipotizzare una "poetica del suono" che viene prima della parola nella relazione analitica, laddove l’incontro all’ "unisono" postulato da Bion (1962) prende una forma acustica – pre verbale – esprimendo con i suoni ciò che si sente assieme, nel medesimo ritmo. I suoni del corpo insieme alle vibrazioni della voce, alla prosodia e al timbro risuonano nella stanza, in un dimensione in cui l’unità di tempo è momentaneamente sospesa poiché presente e passato si dissolvono reciprocamente.

I suoni precedono ogni forma linguistica – di parola – e la dimensione primitiva degli aspetti legati al sensoriale ci permette di ipotizzare una comunicazione più intima tra gli individui. In tale contesto si inserisce la tesi di Di Benedetto, che sottopone alla nostra attenzione la presenza di una rêverie acustica, dove l’immaginazione visiva cede il passo all’immaginazione del suono, della voce nei suoi molteplici registri di espressione, aprendo nell’incontro analitico la possibilità di sentire il corpo nella sua interezza. "Il contatto che si stabilisce mediante i suoni implica una maggiore intimità di quello visivo, poiché gli oggetti si rendono presenti allo stesso tempo dentro e fuori, in un modo che è assimilabile al contatto provato con il corpo materno durante l’allattamento, allorché si sta "dentro" la madre, circondati dalle sue braccia e si riceve allo stesso tempo il suo latte dentro il proprio corpo" (Di Benedetto, 2002, p.57).

Attraverso la rêverie acustica l’invisibile da entità inudibile diventa udibile – da non dicibile esso diviene dicibile – arricchendosi di rumore e di materiale sonoro mai percepito, trasformandosi in parola.

Il suono (fonema) e il significato (morfema) si uniscono per formare parole (engramma linguistico) e cioè le basi di ciò che supera il solo livello acustico per approdare all’infinitezza dell’immaginazione e degli spazi inesplorati dell’inconscio. La voce come strumento dell’analista produce parole che divengono cantiere e laboratorio di quell’apparato per pensare i pensieri la cui presenza già si intuisce, si sente, si odora, si vede, si tocca, si assapora.

Ci sono parole di cui non serbiamo traccia, eppure si inscrivono in suono in quella composizione infinita che è l’Adagio del sentire i pensieri.

 

GRAFICO

Messicani Perduti nel Deserto del Sonora

Quando penso ai disegni di Bolaño (1996), quando penso ai cerchi ed alle linee che si affacciano in alcuni capitoli de "I detective selvaggi" – i capitoli che io sento come centrali di questo strano romanzo, tutto fortemente improntato alla ricerca, alla ricerca in terre straniere di un qualcosa che sia la poesia o la salvezza dalla morte – quando penso a quei disegni: