MITO, METAFORA, SPAZIO
Alcune considerazioni
In questo lavoro si vorrebbe trovare una giustificazione epistemologica all’uso del mito, delle metafore e di altri tropi[1] in analisi. Si proporrà, in conformità con quanto detto da Bion (1963) e Corrao (1992), una espansione del concetto di mito in relazione al suo uso nel campo della conoscenza, in particolare avvinandovi il concetto di metafora ed i suoi correlati; in particolare su l’uso della metafora spaziale e del concetto di luogo, così come esposti in Matte-Blanco (1975) e Siracusano (1981).
I presupposti teorici che stanno alla base di questo lavoro si possono rintracciare nel costruttivismo radicale così come esposto da Corrao (1992) nelle prime pagine del suo “Modelli psicoanalitici; Mito, Passione, Memoria”. Le metafore, le analogie e l’uso di narrazioni in analisi, si potrebbero considerare come i derivati di un modello euristico operante nella mente dell’analista. Queste euristiche sono il risultato degli studi e della formazione in psicoterapia e della loro congiunzione con la sommatoria dell’esperienza del terapeuta e del suo bagaglio culturale (miti, mitologhemi, prassi e detti inclusi[2]). In linguaggio bioniano si potrebbero considerare come: a) il risultato di una serie di astrazioni ( il lavoro di α, cioè di Ps↔D e della dinamica corrispondente ♂♀); b) delle pre-concezioni (Bion, 1962). Essi sono a volte lo strumento più immediato a nostra disposizione (cioè nella nostra esperienza diretta) per osservare e indagare un dato fenomeno clinico. Tale indagine viene svolta, per così dire, a partire dalla somiglianza del fenomeno con altri fenomeni diversi da esso; dallo stabilire una relazione logica tra loro (x-R-y[3]); a partire dalla sovrapposizione di classi proposizionali condivise da ‘oggetti’ diversi eppure accostabili, in senso sia asimmetrico che simmetrico. Questo comporta spesso l’uso di una modalità di produrre conoscenza che è sostanzialmente differente rispetto alle modalità scientifiche ‘classiche’ o aristoteliche di investigare la natura di un dato fenomeno.
La tesi fondamentale del costruttivismo consiste nell’idea che “il conoscere non consista in una attività naturale, (…) come risultato di un suo ricevere passivo, bensì nasce come risultato del lavoro e delle azioni mentali di un soggetto attivo, che deve operare delle scelte alternative di fronte ad ostacoli antagonisti, interni ed esterni” (ibidem, p. 8; corsivi miei). Il costruttivismo radicale rinuncia al realismo metafisico, cioè alla ricerca di una corrispondenza tra conoscenza e realtà oggettiva, ontologica. Propone invece di osservare la realtà (inclusa la realtà dell’esperienza psicoanalitica) a partire dalla peculiare maniera con cui noi esseri umani possiamo rapportarci ad essa: cioè anche per mezzo della esperienza – locale, evenenziale, specifica – che di essa facciamo; in relazione alla nostra capacità di organizzarla in sistemi di conoscenze, in modelli che ci permettano di ordinare, “nella misura del possibile, il flusso dell’esperienza di per sé senza forma, in esperienze ripetibili e in relazioni attendibili tra loro.” (ibidem; p. 9).
Nella epistemologia scientifica tradizionale l’uso del modello per la produzione di conoscenza è contemplato ma non è considerato come lo strumento principe, a causa della necessità di avere e mantenere una posizione ‘oggettiva’, neutrale, distaccata, rispetto all’oggetto d’indagine (vedi più avanti nota 2). Sebbene questo sia possibile ed auspicabile nelle ‘scienze dure’ che hanno generato il sistema scientifico classico, è un dato di fatto che nelle ‘scienze sociali’ o umane, come la psicoanalisi, non è possibile mantenere una simile pretesa di distanza dall’oggetto, o di totale neutralità dell’investigatore: l’oggetto ed il metodo di studio (ad esempio la dinamica del transfert/controtransfert) non permettono di porsi lontano da esso. Bisogna allora rivedere le modalità di produrre e ricavare informazioni utili all’indagine stessa. Bisogna cioè, in analisi, accettare il fatto che spesso ciò di cui veniamo a conoscenza è parte della (co)costruzione di significato che avviene, in modo specifico ed unico, all’interno di un contesto di cui tutti, oggetto osservato ed osservatore, sono inevitabilmente parte in causa; e bisogna conseguentemente comprendere quali funzioni ricoprano, a livello conoscitivo, quei brandelli di esperienza immediata che intervengono nella mente dell’analista anche in maniera disordinata, immediata, apparentemente illogica.
Un esempio. Un paziente ha sofferto di gravi attacchi di panico e di agorafobia e da diverso tempo ha conseguenti difficoltà a uscire di casa, per paura che possa succedere qualcosa di terribile a sé o altri cari. Racconta della sua settimana con fatti apparentemente slegati tra loro: comincia dicendo che “è stata una settimana strana, un passo indietro”; la ragazza con cui da poco ha iniziato a frequentarsi (e che è molto materna con lui) ha fatto delle analisi del sangue e pare che ci sia qualche valore gravemente lontano dalla norma, che meriterebbe di essere ulteriormente investigato; ha incontrato i suoi nonni per cena, sforzandosi di uscire di casa (si è sforzato per dimostrare ai suoi genitori che sta meglio, dice) ma gli è sembrato che i nonni non stessero bene “ma non ha provato molta ansia”; sua madre è partita per un viaggio a Roma e lui si è sforzato di non farsi prendere dall’ansia e chiamarla continuamente, perché “lei si merita di staccare”; mentre era in macchina con suo padre per andare a comprare del cibo ha avvertito un principio di attacco di panico e ha dovuto fermarsi per potersi calmare con alcuni dei rituali che gli sono propri. Mentre il paziente descrive tutti questi eventi, mi trovo a pensare, senza sapere bene perché, al viaggio di Odisseo nell’Ade: al sacrificio dell’animale il cui sangue sarà banchetto per le anime dei morti; all’incontro dell’eroe con le anime dei suoi compagni d’arme e soprattutto con quella della madre, che non sapeva essere morta perché era distante; al tentativo di Ulisse di abbracciare l’ombra della madre, impalpabile e sfuggente. A partire da queste fantasticherie si crea una ipotesi nella mente del terapeuta, che collega gli avvenimenti reali descritti dal paziente col modello offerto dal mito: il paziente si era sentito in quella settimana come posto dinnanzi alla morte (avvenuta, immaginata, temuta, fantasticata, reale, fittizia) ed alla possibilità che la madre distante, come la sua ragazza con i valori sballati, come i suoi nonni che stanno poco bene, potesse essere morta. Nell’episodio mitico è l’incontro con la madre quello che più commuove Odisseo, che non sapeva che fosse morta.
Ora, all’interno di un sistema epistemologico classico, un’operazione di tale genere sarebbe da considerarsi come non valida, non accettabile, puramente soggettiva ed accidentale e dunque da scartare. Eppure, all’interno dell’epistemologia costruttivista psicoanalitica, l’uso ‘spontaneo’ di un brandello mitico può assumere un valore importante per ciò che riguarda la comprensione di quel determinato paziente in quel determinato momento (sia il paziente un singolo individuo o un gruppo). Certo, è una comprensione ‘limitata’: non produce una teoria generale o utilizzabile per altri pazienti o altre situazioni analitiche. Ma produce comunque del significato contestualizzato, utile al proseguire dell’analisi, alla comprensione del susseguirsi ed intrecciarsi dei piani, delle geometrie, dei tempi, dei miti, delle ipotesi, delle paure, delle (a)logiche.
Così si può dire che “nell’epistemologia tradizionale il modello è considerato uno strumento euristico, utile ma non necessario”; mentre “nell’orientamento costruzionista, e specificatamente nell’ambito analitico, il modello deve essere considerato al contrario, utile e necessario proprio nella misura in cui esso ha una funzione puramente strumentale, un uso locale anziché globale, ed è strettamente correlato al contesto dell’esperienza e ai suoi aspetti evenenziali” (ibidem, p. 13-14).
Il mito, in altre parole, essendo una delle dimensioni identificabili degli oggetti analitici osservabili (Bion, 1963), è anche uno degli strumenti euristici più utili per indagarli o inquadrarli. Senza la estensione nel campo del mito, così come inteso da Corrao (1992) e da Bion (riga C della griglia bioniana – Bion, 1963, cap. 6, punto 4), “mancherebbe la possibilità della creazione o della utilizzazione di modelli disponibili per l’attività analitica”. Il modello quindi “svolge un ruolo fondamentale per la costruzione di una teoria” (ibidem, p.13). Il suo uso serve ad amplificare le possibilità di ottenere informazioni e conoscenza da fatti e dati apparentemente slegati tra loro, di accostarli tra loro in modo coerente (Bion, 1963) in base ad un principio di somiglianza e concordanza, piuttosto che di corrispondenza biunivoca o di logica aristotelica. “Il metodo è quello stesso introdotto da Freud per l’analisi dei sogni” (Corrao 1992, p.25) ed ha a che fare con l’idea della amplificazione del campo del significato, dell’accostamento delle categorie, in un processo inverso a quello del riduzionismo scientifico classico. Sua funzione, in senso conoscitivo, è “quella di fornire una forma discorsiva e narrativa per una verità che non può essere detta e trasmessa attraverso una definizione diretta. (…) il linguaggio può esprimere la verità ed il suo movimento solo indirettamente e analogicamente, cioè in modo mitico” (ibidem, p. 28). In questo senso l’uso di altre categorie ‘parallele’ al mito (pensiero onirico, sogno, metafora, tropi, etc.) è giustificato? Si potrebbe dunque accostare l’uso delle metafore e delle analogie alla riga C della griglia bioniana (pensieri onirici, sogni, mito)? In altre parole: quando ‘peschiamo’ da campi conoscitivi diversi da quello strettamente analitico e/o mitico per imprimere un senso al materiale che ci è portato in analisi, abbiamo diritto a ritenere che l’operazione che stiamo compiendo sia giustificata epistemologicamente?
Prendiamo l’esempio delle categorie concettuali di ‘spazio’ e ‘luogo’: hanno un possibile spazio all’interno della pratica psicoanalitica? E se sì, quale luogo occupano[4]? È il luogo della metafora e del ‘come se’; forse, in certi sensi, in quello della narrazione (Corrao, 1987).
Ritengo si debba considerare l’uso di tali metafore come se cadessero nella stessa categoria dell’uso del mito (C1, C3, C4, C5, C6 à G6?) in quanto “la comprensione della metafora implicitamente comporta l’estrazione di relazioni generali da un esempio particolare e il successivo riconoscimento che queste stesse relazioni generali si applicano anche ad un altro esempio particolare” (Matte-Blanco, 1975, p. 449; tutto in corsivo nel testo originale). Mi pare che questa citazione possa descrivere sia il mito che la metafora ed altri tropoi.
L’uso di modelli della riga C della griglia non ha a che fare con una pretesa di descrizione/comprensione (o di denegazione, nel caso di C2[5]) ontologica; ma piuttosto con un vertice epistemologico. Con l’uso delle metafore non si vuole pretendere di star descrivendo il funzionamento mentale (o una parte del funzionamento mentale) così come è davvero; lo si vuole piuttosto descrivere in relazione al cosa – di un Altro – assomiglia e, psicologicamente, quale funzione esso ricopra.
Infatti, dire che uno spazio mentale esista sarebbe fuorviante: qualora di affermasse ciò ci si verrebbe a scontrare col dato di fatto che uno spazio mentale in sé e per sé non è direttamente osservabile. Nessuno ha mai letteralmente visto uno spazio mentale. Ciò non vuol dire, però che esso non sia inferibile, od indirettamente osservabile nel suo funzionamento, o fecondo nel suo utilizzo investigativo. E che quindi possa essere ‘visto’[6].
L’uso delle metafore spaziali e dei tropismi in generale è dunque giustificato, proprio come l’uso del mito, in quanto è parte dell’armamentario a nostra disposizione per la creazione di modelli euristici atti a conoscere e comprendere la realtà (e che sono a loro volta influenzati dalla ‘realtà’ della spazio e dalla ‘realtà’ dei fatti descritti dalle metafore). Un chiaro esempio di ciò sono i già citati lavori di Matte-Blanco (1975, in particolare i cap. 31, 32, 33), il quale sottolinea come vi sia “una tendenza naturale della mente ad utilizzare i concetti di spazio per riferirsi ai fenomeni mentali” (ibidem, p.451) e come l’uso della metafora tout court abbia a che fare con la relazione intercorrente tra spazio fisico e spazio psichico. Come nel mito e nei mitologhemi, nella metafora le categorie degli oggetti posti in relazione tra loro ‘collassano’, permettendone la condensazione, la reversibilità, il mettere insieme ciò che, ad un livello logico, sarebbe vicendevolmente escludentesi per i principi di ‘non contraddizione’ (è impossibile che una stessa cosa sia e non sia allo stesso tempo), il principio di identità (A è A e non può essere non-A) e il principio del terzo escluso (A o è B o non è B). La metafora ed i tropi (ed in particolare la metafora spaziale) sono, in questo senso, dei tentativi di descrivere in modo imperfetto, non biunivoco, incerto, alcune caratteristiche del funzionamento inconscio e del funzionamento dell’Inconscio. Il tentativo di farsene una mappa (Corrao, 1992; p. 5, là dove cita Waztlawick).
È parte di un processo che è considerato normale in psicoanalisi. Talvolta fino al punto di renderlo scontato o implicito nella sua pratica. Eppure questo uso di una logica particolare, basata sul parallelismo è frequente. Basta cercare nella letteratura per imbattersi in parole e locuzioni quali: ‘iperbole’, ‘piano’, ‘spazio ectopico’, ‘campo’, ‘frattale’, ‘dimensione/i’, ‘rete’, ‘punto’, ‘linea’…(per non dire di ‘spostamento’, ‘traslazione’, ‘proiezione’, ‘condensazione’…)[7].
Leggiamo da Siracusano (1981): “Lo spazio analitico può essere limitato o illimitato, a una o più dimensioni, si può espandere e si può contrarre e piò essere rappresentato a volte dalle figure topologiche: nastro di Moebius, bottiglia di Klein, toro o ciambella. Esso si avvicina allo ‘spazio vissuto’ di Minkowski, che è irrazionale, amatematico e ageometrico” (p. 87). E così alcuni pazienti ci possono dare l’idea di incarnare, nei loro modi di essere, alcune di queste topologie: una paziente con diagnosi di bipolarismo e schizofrenia paranoide dice di essere “innamorata dell’amore” e scambia spesso il comportamento degli uomini per avances e interesse sentimentale, autoalimentando un circuito che la porta rapidamente in fase maniacale, rischiando spesso uno scompenso psicotico ed il ricovero in psichiatria; lascia in chi la ascolta la sensazione d’osservare una iperbole che tende infinitamente verso l’asse cartesiano.
Un ulteriore comprensione è possibile qualora si passi ad una concettualizzazione per ‘luoghi’. Forse è proprio il concetto di luogo quello che più si avvicina a quello di mito, qualora lo si faccia accostare al concetto di ‘tema’, o elemento narrativo, tòpos (come nella frase: “Uno dei temi di questo paziente…”, cioè dei suoi tòpoi). Lo spazio, nel luogo, esce da una logica euclidea e consente “(…) lo svolgersi di moduli in cui è possibile che e mani vedano, che l’occhio ascolti, che si possano scoprire territori mentali inesplorati, che si possano perdere i limiti tra soggetto e oggetto e infine che il corpo si frammenti in pezzi viventi animati da proprie pulsioni, che si agglomerano in figure distorte e bizzarre” (ibidem, p.90). Tramite l’uso dello ‘spazio’ (anche quello metrico, o geometrico, o grafico), come tramite l’uso del ‘luogo’ (che è riduzione dello spazio mentale in uno spazio non metrico, in uno o più temi di narrativi, in narremi) è possibile provare a descrivere delle ipotesi modellistiche sul funzionamento del sistema inconscio – così come già avviene tramite l’uso del mito.
Ciò ha una potenziale ricaduta anche sulla clinica: cosa farsene, terapeuticamente, di tutti quei pensieri e/o fantasie che insorgono nel corso dell’ascolto? Fino a che punto l’analista deve affidarsi “ad uno stato sognante”, alla potenziale nebulosità ed allo squarcio della nebulosità che ogni tanto in mente gli insorge, gli avviene? In altri termini: come lavorare con i quei fattori esperienziali, locali, evenenziali e specifici che si accompagnano, anche in quanto derivati, all’ascolto analitico?
Accoglierli? Rifiutarli? Cercarne le connessioni con il discorso del paziente o rimandarli al mittente in quanto non congrui con la prassi terapeutica? Avere la capacità di lasciar la propria mente a fluttuare implica forse un movimento di assecondamento, più o meno deciso: a volte accentuarlo per poi contrastarlo; e viceversa. Non è questa la rêverie? Uno stato di oscillazione?
“Sentire che un oggetto sia come molto concreto ed allo stesso tempo è sentito che non ha, ed è assurdo pensare che abbia, le caratteristiche di un oggetto concreto” (Matte-Blanco, 1972, citato in Siracusano, 1981; corsivi nel testo originale). Vorrei che queste parole si riferissero non solo alla metafora-oggetto ma anche a quelle di spazio e di luogo. E forse anche all’uso del modello così come inteso in C (C1, C3, C4, C5, C6…) per la griglia bioniana: del resto caratteristica dello spazio è quella di essere definibile solo a partire dalle posizioni in cui si trovano gli oggetti che lo occupano (Siracusano, 1981). Siano questi oggetti gli ‘oggetti kleiniani’ di un paziente, gli ‘oggetti analitici’ osservabili in un gruppo, o gli ‘oggetti’ che sono i termini di una metafora, tutti ricadono sotto la proposizione logica per xRy, cioè x è in relazione con y[8] (vedi Matte-Blanco, 1975 cap. II, ‘Alcuni concetti logico-matematici’): è la loro posizione concreta e astratta al contempo a formare e definire lo spazio transizionale di una relazione o di un modello, e le loro caratteristico.
Scegliere di usare un modello di tipo mitico o metaforico in un’ottica costruttivistica implica proprio questo: il suo uso come se fosse dotato di caratteristiche contemporanee e non vicendevolmente escludentisi di concretezza e astrazione, di vero e di falso, di reale e di immaginativo, di serio e di fantasticato. Di veglia e di sogno (Bion, 1962; cap. VII). La scelta è di apprendere dall’esperienza, è di provarsi nel conoscere qualcosa, anche sfruttando la potenziale fuga o modificazione del dolore (ibidem, cap. XVI, in particolare prf. 4) messa in atto per mezzo dell’apparizione di un pensiero che sembra ‘fuori luogo’. Cioè per mezzo di una forma di esperienza emotiva-cognitiva, la cui presenza è svelata ed al contempo nascosta dall’imporsi di pensiero, in ±K, nel controtransfert. Così: “l’oggetto analitico si pone come oggetto polisemico del lungo moto interpretativo controtransferale dell’analista da un lato e del lungo moto dei messaggi transferali del paziente dall’altro. Il transfert ed il controtransfert sono le forze dello spazio analitico che differenziano e organizzano l’avvicendarsi degli oggetti regolandone la disposizione” (Siracusano, 1981, p. 94).
Desidero chiudere questo lavoro con una ulteriore domanda, anch’essa ispirata dai lavori di Siracusano ed informata nel senso e nella dimensione del mito. Mi chiedo: fino a che punto lo psicoanalista può incarnare la figura mitica di Tiresia, l’indovino? Egli è cieco al mondo reale (in quanto lo spazio analitico ha le caratteristiche di essere uno spazio terzo rispetto alla realtà e del paziente e dell’analista) ma la sua ‘vista’, è aperta ai segni nascosti della realtà, alle trame della congiuntura tra transfert e controtransfert, del veridico e del finzionale, del passato e del presente. Mi chiedo: la stanza dell’analista, il suo spazio personale, non è altrettanto cieco (o semi-cieco) al dato di realtà, così come di contro è aperto al mondo dell’invisibile, del non direttamente detto, dell’occultato, del sogno? In essa i piani si mescolano per produrre altri piani di realtà: “è più vera la elaborazione del sogno o del mondo interno insieme alla elaborazione della realtà o del mondo esterno, che non solo questa o quella” (Siracusano, 1992; p. 3). Così la figura dell’indovino sembra avvicinarsi a quella dell’analista: “il mito di Tiresia può considerarsi proprio un modello del pensiero arcaico, dove il sogno, la fantasia, l’immaginazione e il misterioso si mescolano in un giuoco dagli sviluppi così imprevedibili che possono sorprendere anche uno psicoanalista o invitarlo ad acquisire una capacità altrettanto visionaria e reale” (ibidem; p. 12; corsivi miei), che provi a rompere, come nella logica arcaica, la netta separazione tra l’oggettivo e il soggettivo: “ta onta kai ta aleté”.
“Forse Tiresia, nell’universo mitico, rappresenta ed anticipa il lungo passaggio dalla logica arcaica alla logica aristotelica” (ib. p. 16) ed è dunque il ponte che unisce i due modi della conoscenza, il logico e l’illogico. Ed egli è giunto a queste forme di conoscenza per ananké, per fato, per necessità del destino: si imbatte nelle nudità della dea Atena, nel tabù, nel vietato, contro la proprio volontà. E ad esse, la dea e l’ananké è assoggettato, così come l’analista è assoggettato ai propri pensieri ‘ectopici’ (Siracusano, 1986), fuori luogo, assurdi – ma derivanti dalla (ir)realtà campo, dalla sua influenza su tutti i suoi attori. Dalla ‘necessità’ che fa insorgere pensieri incomprensibili.
“Tiresia è stato accecato perché ha visto ciò che non doveva vedere, ma cieco vedrà ciò che nessuno vede e per sempre, e vede e vedrà al di là. Cioè Tiresia non vede più la Gorgone perché ne è stato accecato, ma appunto perciò non la teme più, non può più essere accecato e può vedere per sempre. Egli non ha più bisogno delle specchio di Perseo per affrontare la Gorgone” (ib. p. 19).
BIBLIOGRAFIA
BION, W.R. (1962), Apprendere dall’esperienza, trad. it. in Armando Editore, Roma, 2009.
BION, W.R. (1963), “Elementi della Psicoanalisi”, trad. it. in Armando Editore, Roma, 2015.
CORRAO, F. (1987), “Il narrativo come categoria psicoanalitica”; in “Orme; vol. II”, Raffaello Cortina, Milano, 1998.
CORRAO, F. (1992), “Modelli psicoanalitici: Mito, Passione, Memoria”, Laterza Editore, Roma.
MATTE BLANCO, I. (1975), “L'inconscio come insiemi infiniti: saggio sulla bi-logica”, a cura di P. Bria, Torino, Einaudi, 2000.
SIRACUSANO, F. (1981), “Lo spazio nella relazione analitica”; in “Rivista di psicoanalisi”, anno XXVII – N. 1 – Gennaio-Marzo 1981
SIRACUSANO, F. (1992), “Un tentativo di interpretare Tiresia”; letto presso il Centro Psicoanalitico di Palermo il 20/6/1992.
[1] Tròpo, s. m. [dal lat. tropus, gr. τρόπος; affine a τρέπω ‘volgere; adoperare con altro uso’]. Metafora, e in genere traslato, come figura retorica di carattere semantico. L'utilizzo retorico di una deviazione e trasposizione di significato, quando l'uso di un'espressione normalmente legata ad un campo semantico viene attribuito per estensione ad altri oggetti o modi di essere. Il tropo indica qualsiasi figura retorica in cui un'espressione: a) è trasferita dal significato che le si riconosce come proprio ad un altro figurato; b) è destinata a rivestire, per estensione, un contenuto diverso da quello originario e letterale . Il suo utilizzo è detto ‘tropologia’, termine che indica un parlare per tropi.
[2] Questo non vuole e non può essere un elenco completo dei fattori in gioco, naturalmente: la lista dei fattori concorrenti al formarsi e disfarsi delle euristiche usate da un singolo (e dal/dai relativo/i gruppo/i) è di grandezze d’ordine quasi caotico, eccessivo perché si possa effettivamente districare questo processo.
[3] Vedi più avanti nota 8.
[4] Non è un calembour, un gioco di parole: porre queste domande si accorda alla funzione ricorsiva di costruzione di una teoria che è tipica del costruttivismo per cui ogni teoria è anche una meta-teoria: “Nell’orizzonte costruttivista (…) il modello svolge un ruolo fondamentale per la costruzione di una teoria, in quanto può guidarci nella scelta della struttura formale di questa; e/o inoltre può conferire significato ai termini teorici e in tal modo connetterli alle esperienze vissute; il modello infine può consentire di estendere le formulazioni teoriche a nuovi osservabili e diventare quindi parte essenziale dello sviluppo della teoria” (…) (Corrao, 1992, p. 13).
[5] Questo merita di essere sottolineato: la dicotomia descrizione/comprensione versus denegazione/incomprensione è assimilabile a ±K. Il termine ‘epistemologico’, dunque, qui indica sia l’atteggiamento epistemofilico che quello epistemofobico, anche così come è riscontrabile nella clinica.
[6] Anche il concetto di vedere è un tòpos, un luogo comune del linguaggio psicoanalitico.
[7] “Lo spazio può essere la proiezione dell’estensione dell’apparato psichico. Nessun altra derivazione è verosimile. Invece (ciò non si può dire) delle condizioni a priori kantiane nel nostro apparato psichico. La psiche è estesa, di ciò non sa nulla” (Freud, 1938; citato in Siracusano, 1981).
“L’espressione più affascinante e forse (lo dico senza esagerare) più importante di Freud è in questa nota postuma: “Psyche ist ausgedehnt, weiss nicht davon”. “La psiche è estesa, non ne sa niente”. La psiche è, cioè, corpo, ed è proprio questo che le sfugge, e che (si potrebbe pensare) sfuggendole la costituisce in quanto ‘psyché’ e nella dimensione di non-(potere/volere)-saper-si. Il corpo o i corpi che si tratta di toccare col pensiero sono proprio questo: corpi di ‘psiche’, essere-esteso e fuori-di-sé della presenza-al-mondo. Nascita: spaziamento, uscita dalla puntualità, estensioni di reti in ectopie molteplici (non soltanto il seno) dentro/fuori, fort/da, geografie dell’Es, senza mappa né territorio, zone (il piacere ha luogo per zone). Non è un caso che Freud fosse ossessionato dalla topica (…)” (J.L. Nancy, Corpus, 1992, Edizioni Cronopio, p. 21; tutti i corsivi sono nel testo originale).
[8] una relazione (R) definita dalla natura degli stessi x e y, e dal loro reciproco posizionamento: lo spazio astraibile a partire dal loro reciproco posizionamento. Ogni logica è permeata di spazialità (Matte-Blanco, 1975).