Bipolarismo o Psicosi Maniaco-depressiva:
qualche cenno psicodinamico
I disturbi dello spettro bipolare, anche conosciuti come disturbi maniaco-depressivi o come psicosi maniaco depressiva, sono disturbi caratterizzati da oscillazioni insolite del tono dell’umore e della capacità di funzionamento della persona; da un'alternanza fra due condizioni contro-polari, cioè tra l’eccitamento (la cosiddetta mania) ed il proprio rovescio, la depressione. A tali sintomi si uniscono spesso alcuni disturbi del pensiero e del comportamento, nonché disturbi di personalità. La dis-regolazione funzionale si rende evidente nelle alterazioni dell'equilibrio timico (disturbi dell'umore), dei processi ideativi (alterazioni della forma e del contenuto del pensiero), della motricità e dell'iniziativa comportamentale, nonché in manifestazioni neurovegetative (anomalie dei livelli di energia, dell'appetito, del desiderio sessuale, del ciclo-ritmo sonno-veglia).
Karl Abraham, nel 1912, fu il primo tra gli psicoanalisti a pubblicare un articolo sul trattamento di quei pazienti che all’inizio del secolo scorso venivano chiamati maniaco-depressivi e che, sotto certi aspetti, possono essere fatti collimare con la categoria nosologica oggi conosciuta come bipolarismo. In questo articolo postulò l’idea che la depressione, in questi soggetti, provenisse dalla rimozione del sadismo e osservò che melanconia e mania erano il risultato di un complesso simile tra loro, ma con esiti differenti.
Alcuni pazienti gravi, diagnosticati con disturbo bipolare, anche oggi danno l’impressione che, sotto i loro stati di agitazione psicomotoria, di attività irrefrenabile, di consumo esagerato e coattivo di sostanze stupefacenti, nascondano impressionanti stati depressivi, melanconie incurabili e vecchi oggetti per cui non è mai stato compiuto un adeguato e normale lavoro del lutto (Freud, 1915) e che sembrano a volte ‘tornare in vita’ con la loro carica di persecutorietà e aggressività. In tal senso le condotte maniacali, al limite dell’auto-distruttività, avrebbero quindi la funzione di riparare costantemente il Sé dagli attacchi che l’Io, incarnando una figura ormai perduta, abbandonica, abusante e punitiva, rivolge verso se stesso e verso tutta la persona intesa come unità fisico-mentale (il Sé, per l’appunto). Dice Freud, in relazione alla melanconia: “(…) l’ombra dell’oggetto cadde così sull’Io che d’ora in avanti poté essere giudicato da un’istanza particolare come un oggetto, e precisamente come l’oggetto abbandonato. In questo modo la perdita dell’oggetto si era trasformata in una perdita dell’Io ed il conflitto tra l’Io e la persona amata in un dissidio tra l’attività critica dell’Io e l’Io alterato dall’identificazione” (ibidem, 1915; p.108). In altre parole: l’Io, identificandosi con l’oggetto amato e ormai perduto, si confonde con l’oggetto stesso, in qualche senso lo cannibalizza, incorporandolo, e lo utilizza per distruggere se stesso. Si può per inciso notare come tali concetti di identificazione porteranno poi Freud a postulare l’idea del Super-Io.
Se nel melanconico l’esito è, diciamo, di tipo depressivo – per cui assistiamo ad un’intensa e irrefrenabile serie di autorimproveri, autocritiche e lagnanze (Freud, 1915; sul gioco di parole in tedesco klagen/anklagen, cioè lamentela funebre/lagnanza-accusa) – nel maniaco-depressivo possiamo anche trovare, come in aggiunta, delle notevoli attività atte a ‘riparare’ i danni fatti dall’oggetto del lutto cannibalizzato, vendicativo e, fondamentalmente, odiato (Klein, 1940). Ne conseguono quindi riparazioni maniacali fondate sul diniego totale dei sentimenti depressivi provati, anestetizzati violentemente dalle condotte di consumo e automedicazione. Onnipotenza, diniego, disprezzo e idealizzazione emergono come risposta ai sentimenti dolorosi causati dalla perdita dell’oggetto amato, e si appoggiano su potenti difese scissionali, utili a non riconoscere in sé la presenza di oggetti d’amore cattivi e frustranti e la controparte rappresentata da una profonda dipendenza affettiva nei confronti di questi stessi. Ne conseguono, dunque, la necessità per alcuni pazienti di negare l’esistenza della propria aggressività (o di giustificarla arzigogolatamente); un’attitudine euforica spesso in notevole contrasto con le condizioni di vita attuali; l’idealizzazione e/o il disprezzo nei confronti degli altri (ambivalenza); una ricca produzione ideativa che può assumere anche le caratteristiche del delirio. Nei pazienti maniacali disforici, angoscia e depressione di aprono un varco, nella struttura di personalità, soltanto attraverso ‘l’esplosione’ di un episodio maniacale o ipomaniacale, che a sua volta sarà poi oggetto di forte disconoscimento e scissione, e di ulteriore diniego maniacale.
In autori più moderni (Gabbard, 1992) tali dinamiche di ambivalenza relazionale hanno portato a concentrare maggiormente l’attenzione sulle esperienze traumatiche che tali individui hanno sperimentato in età infantile e, conseguentemente, a mettere in rilievo gli aspetti di profonda fragilità narcisistica di cui essi soffrono. Ragionano così più spesso sulla interazione tra le rappresentazioni del Sé (abbandonato, meritevole di disprezzo e di abuso) e le rappresentazioni dell’oggetto (abbandonante, ipercritico, abusante, punitivo) piuttosto che al rapporto tra Io e Super-io persecutorio. Tali rappresentazioni Sé/altro si legano spesso a figure genitoriali reali effettivamente violente e severe o precocemente scomparse, decedute. Il soggetto che perde il proprio oggetto d’amore e di identificazione cresce così con un senso di lutto e mancanza che viene poi facilmente riattivato da tutte quelle circostanze stressanti che coinvolgono (più o meno simbolicamente) la perdita, producendo un effetto di ‘riverbero’ ed amplificazione dello stato emotivo passato in quello attuale. Da cui può conseguire il ‘ritorno’ dell’esplosioni sopracitate e della condotta maniacale; un’autostima vulnerabilissima alle ferite narcisistiche; una pletora di difficoltà relazionali in età adulta; tutti fenomeni che contribuiscono, ricorsivamente, come in una spirale, ad accrescere l’uso di quegli stessi meccanismi difensivi di scissione e di diniego della realtà (esterna ed interna) che li hanno causati.
È quindi caratteristica di questi pazienti bipolari quella di non rendersi conto (coscientemente) dei propri sintomi maniacali a causa proprio di questi meccanismi di difesa. Spesso sostengono che la propria maniacalità non è parte di un disturbo psichiatrico ma un proprio tipico modo di essere; conseguentemente la capacità di insight di tali pazienti è scarsa, anche all’sterno da un episodio maniacale. Arrivano quindi a disconoscere quasi totalmente la presenza di un problema. Possono utilizzare anche difese meno arcaiche, come l’intellettualizzazione e la razionalizzazione, per giustificare le proprie condotte, la scarsa cura del sé, o per sostenere che l’episodio maniacale sia stato un fenomeno isolato e non ripetibile. Vi è come una cesura completa tra il comportamento e la personalità in stato maniacale da quelli in uno stato di eutimia. Ciò comporta notevoli complicazioni al momento del trattamento: la mancanza di continuità narrativa può essere spesso esasperante, ed il lavoro di ricucitura dei frammenti della personalità, degli episodi, delle violente scissioni è arduo. Come arduo è il tentativo di far concentrare tali pazienti sugli aspetti luttuosi della propria struttura di personalità, sulla necessità di far continuare (o spesso iniziare) il lavoro del lutto, sul bisogno di riappropriarsi dei propri sentimenti aggressivi, persecutori, senza per questo scendere nell’apologetico, permettendo a questi pazienti di muoversi tra i contrapposti picchi della distruttività e del rimorso riparatorio. A condizione però che tale movimento oscillatorio possa essere sfruttato per favorire una integrazione che, per quanto dolorosa ed evitata dal paziente – che presenterà conseguentemente un transfert spesso oscillante tra il negativo e l’idealizzante nei confronti del terapeuta – potrà far si che prevalga in lui, alla lunga, una idea di relazione nella quale prevalga la cura, piuttosto che il rimprovero e l’abuso; il bene piuttosto che il male, l’amore piuttosto che l’odio. Simili sentimenti potrà provare il terapeuta, nel relazionarsi ad un soggetto così ambivalente. Potrebbe essere frequente l’instaurarsi di dinamiche relazionali nelle quali il paziente, in qualche senso, ‘chieda’ di essere maltrattato, chieda all’analista di trasformarsi in quell’oggetto d’amore persecutorio e violento che lo aiuti a realizzare il proprio bisogno di mantenere e preservare una dinamica a due sadomasochistica, in cui odio e amore si mescolino, come si mescolano e scambiano i ruoli di entrambi gli attori. Possono così apparire – nella realtà relazionale come nella fantasia del paziente – un terapeuta sadico e rimproverante, che richiama un padre o una madre abusanti, ed un paziente masochista, che tali abusi e violenze si attende e inconsciamente desidera ed elicita. O, viceversa, un paziente sadico e crudele, che manca di insight, che esaspera per la ripetitività del proprio comportamento e dei propri stati maniacali, che disprezza il proprio curante in modo più o meno franco, in coppia con un analista masochista, disperato, che ‘non sa più che pesci prendere’, che può arrivare a desiderare l’uscita del paziente dalla terapia (o dalla struttura in cui è ricoverato, o dalla vita). È necessario che l’instaurarsi di tali dinamiche possa essere riconosciuto ed adeguatamente trattato in sede di psicoterapia, in quanto parte specifica della modalità che il paziente (ed un terapeuta potenzialmente con lui colluso) ha di stabilire una relazione col mondo, col sé e con gli altri, aggressivamente. Il rischio di un agito contro-transferale di frustrazione e rabbia è un rischio costante, anche perché il paziente può spesso scartare violentemente dalla propria responsabilità o concorrenza di responsabilità nella messa in atto di dinamiche a due, ed è spesso pronto a razionalizzare incredibilmente le proprie condotte, con spesso evidenti distorsioni del pensiero atte a non colpevolizzarsi. L’assunzione di responsabilità nei confronti di se stessi – in relazione alle proprie condotte, ai propri desideri, ai propri pensieri, ai propri psicofarmaci, al proprio consumo di sostanze, alla propria psicoterapia, etc.– viene quindi ad essere centrale per il miglioramento; ciò vale tanto per i curati, quanto per i curanti.
Il caso di Massimo
Massimo, di 52 anni, ricoverato in una CTA da 6 anni, con una doppia diagnosi di Alcolismo e Disturbo Bipolare. Una storia ventennale di ricoveri e TSO. Figlio di una famiglia borghese molto benestante, primogenito di due fratelli. Dell’infanzia non sappiamo molto. Parla spesso di una giovinezza relativamente tranquilla, passata tra la scuola (in cui non ha un ottimo rendimento: nella scuola pubblica perde un anno; passa alla privata) e la principale attività di famiglia, un negozio di articoli d’ufficio molto importante della città. Si profonde spesso in ricordi, ha una memoria episodica eccezionale, riporta nomi dopo nomi e storie dopo storie di persone che hanno affollato il negozio. Racconta però che già da ragazzo soffriva di ansie insopportabili. Ogni tanto beveva ma senza eccessi. Intorno ai suoi vent’anni il padre – una figura raccontata come un po’ austera, signorile, vecchio modo, borghese, molto temuto da Massimo per la sua severità; oggi molto idealizzata e presente nei ricordi e nella mente del paziente – muore improvvisamente d’infarto. Il negozio chiude ed avviene una spartizione dell’eredità che è gestita, dice lui, “responsabilmente, abbiamo fatto le cose giuste”. Questo processo dura qualche anno, tre o quattro, tra vendite di proprietà, atti di passaggio e di donazione. Durante questo periodo però le ansie di Massimo sono peggiorate, inizia a fare ricorso ad ansiolitici, sempre più massicciamente, prescritti dal neurologo che li prescrive anche alla madre (e forse al fratello). Vede vari psicoterapeuti ma non inizia con nessuno un vero e proprio percorso. Nel frattempo la divisione dei beni è effettuata, siamo a cavallo tra gli anni ’80 ed i ’90. Ognuno di loro si ritrova con una larghissima disponibilità economica. Massimo continua a gestire alcune proprietà, sue e della madre. Essa viene chiamata da entrambi i fratelli ‘a picciridda’, la bambina, e descritta come una donna non molto cresciuta, un po’ incapace “nelle cose della vita” e svampita; passata molto giovane dalla famiglia d’origine alla casa del marito, di lei molto più grande, senza grandi mezzi per fare la madre e che coi figli ha sviluppato un rapporto di reciproca dipendenza. Sembra che per Massimo non se ne sia mai pienamente staccato ed è sempre pronto ad accontentare i suoi desideri, senza riguardo per le economie della famiglia. Si sentono giornalmente con Massimo, e se per qualche motivo tale telefonata non avviene il paziente da in forti escandescenze, si arrabbia moltissimo, arrivando a insultare gli operatori della comunità. Si potrebbe pensare da quel che racconta il paziente che la dimostrazione di affetto nei confronti dei figli sia come relativa all’esaudimento dei suoi desideri.
La famiglia passa un periodo di apparente benessere. Il fratello si è trasferito a Roma, dove vive senza lavorare e conducendo uno stile di vita al di sopra delle proprie possibilità. Anche Massimo inizia a frequentare amicizia molto facoltose, ed al contempo continua nel suo consumo sempre più ingente di alcolici e, dice lui saltuariamente, sostanze stupefacenti. Gli vengono ancora prescritti gli ansiolitici. Anche lui vive al di sopra delle proprie possibilità. Nel corso degli anni le capacità economiche della famiglia cominciano ad esaurirsi, sempre più rapidamente. Sono innumerevoli i racconti che Massimo fa di serate e notte e giorni passate tra feste e divertimenti e viaggi. Racconta in modo particolareggiato della movida catanese degli anni novanta e di innumerevoli incontri, spesso attribuendosi conquiste sessuali mirabolanti – sempre storie vissute come un ricordo melanconico, un passato glorioso che non si può abbandonare, molto distante da quello che il suo stile di vita degli ultimi vent’anni di vita e molto distante da un ancora più glorioso passato della famiglia tutta, quando il padre era ancora in vita e gestiva la famiglia, mostrandosi a volte, nei racconti di Massimo, come forse un buon oggetto d’amore, soprattutto ai tempi in cui era in vita, ed ora come una figura un po’ più diafana, resa trasparente dalla sua distanza idealizzata, ma che avrebbe sicuramente disapprovato lo stile di vita e la condotta del figlio. Pare come se Massimo, morto il padre, abbia ceduto alla pressione datagli dalla gestione della cosa di famiglia, ed i limiti imposti da uno stile di vita responsabile, rappresentato dal padre ormai deceduto, siano caduti – anche se gradualmente, come graduale è stato l’aumentare del suo consumo. Racconta di sempre più frequenti stati di disforia, di maniacalità, a cui seguono profondi episodi depressivi durante i quali ricorre all’alcol ed agli ansiolitici. Talvolta la sua storia assume i tratti del delirio di grandezza, talvolta invece assume molte caratteristiche, quasi come un luogo comune, d’una sorta di romanzo sulla caduta di una famiglia intera, e di un figlio in particolare che sembra assumersi, anche agli occhi dei parenti, la colpa di questa caduta. Pochi anni ancora e si ritrovano in condizioni di sempre maggiore povertà. Il fratello rientra da Roma in bancarotta, con debiti. Vengono vendute sempre più proprietà per ripagarli. Il consumo di alcol e le condotte maniacali di Massimo diventano sempre più frequenti. Se prima raccontava di feste e vip e cocaina, ora racconta di sempre più prolungati stati di ubriachezza, e d’una crescente fama di ubriacone e molesto nel paesino dove si sono ritirati con la famiglia, nell’ultima casa rimasta alla famiglia. Si mantengono con l’affitto dell’unica bottega ancora loro. Siamo nel nuovo millennio e Massimo, dopo un TSO dovuto al suo girovagare per le strade del paesino in condizioni di ubriachezza e scarsa cura di sé, finisce sotto amministrazione di sostegno, imposta dal giudice. Questo impedisce alla famiglia di far vendere anche le ultime proprietà a Massimo per risanare una situazione economica impossibile, peggiorata ulteriormente dalla ludopatia del fratello di Massimo. Ha iniziato ad assumere antipsicotici e stabilizzatori dell’umore, in dosi sempre più massicce. Si susseguono gli incidenti automobilistici di Massimo, che guida costantemente in condizioni di ubriachezza. Rischia la vita varie volte; varie volte si ferisce in modo anche grave, distrugge anche proprietà altrui. Gli viene ritirata la patente. Tenta più volte di disintossicarsi dall’alcol, anche in cliniche e comunità, per breve tempo. Non riesce mai. Alla fine, dopo l’ennesimo TSO, viene ricoverato in CTA dai Servizi. Il rapporto con la comunità comincia ad assomigliare sempre più al rapporto con la madre e con il padre: dipendenza e idealizzazione, a cui si combina una totale scissione dei propri aspetti autodistruttivi, un totale disconoscimento della propria responsabilità nel continuo abuso d’alcol e di farmaci. Ogni volta che esce dalla comunità e ritorna a casa ricomincia immediatamente a bere. La famiglia non collabora in questo senso con i curanti, facendo sempre trovare al paziente delle sostanze alcoliche e le pastiglie che nel frattempo tutti continuano ad assumere. Anche se fisicamente disintossicato dall’alcol, Massimo ogniqualvolta può torna a bere in modo smodato, anche trenta birre alla volta racconta lui, passando al chiuso tutto il tempo che è a casa, uscendo solo per comprare altri alcolici. Oramai non esce nemmeno più, perché si sente, ed in parte lo è, uno zimbello del paese. Mentre racconta, porta temi di persecutorietà che, come molte altre sue storie, non si riesce ben ad inquadrare tra la verità ed il delirio. Passa giornate intere in casa seduto a bere e fumare, mentre quando è in comunità le passa a fumare e litigare con gli operatori della struttura, che spinge coi suoi comportamenti fino all’esasperazione.
Ad oggi le sue condizioni psicofisiche sono molto peggiorate. I sei anni di ricovero in questa ultima comunità non sono andati bene. Negli ultimi due anni, dopo i 51 di età, ha cominciato a mostrare sempre più evidenti segni di invecchiamento cerebrale precoce. Ha sempre avuto costanti accessi d’ira e condotte verbali etero-aggressive, molto spesso in relazione alla soddisfazione dei propri bisogni (sigarette, telefonate ai parenti, uscite, cibo, etc.); ma se prima venivano attribuite al suo disturbo psichiatrico, oggi vengono invece viste come segni di deterioramento cerebrale. Il suo comportamento è sempre più stereotipato e sempre più, mi si passi il termine, autistico, durante i suoi momenti di agitazione. I suoi rapporti con quasi tutti gli operatori della comunità si sono compromessi, quasi irrimediabilmente: tutti avevano investito molto in lui, ed ora è lui tutto una delusione incarnata. Come lo è stato per la famiglia. Come si sente lui. Anche la memoria episodica, un tempo la principale caratteristica di Massimo, comincia a perdere colpi, a perdersi anch’essa nella ripetitività delle storie: il padre. La sorella del padre. La cartoleria. Le proprietà. Le case. I terreni. La Famiglia. E il padre. E le case. I Terreni e la cartoleria. I viaggi. Le ricchezze. La Famiglia. Le ricchezze. Le ricchezze.
Il paziente racconta e si perde nei suoi discorsi e nelle sue storie, che assumono sempre più la caratteristica di una ruminazione distante, che si distacca dall’ascoltatore, non ne tiene conto, sempre meno ne tiene conto. Snocciola parole sempre più bofonchiate ma sempre piene, sempre più piene man mano che si perdono, d’un rimpianto melancolico, d’una nostalgia da morirne.
Tra pochi mesi verrà dimesso.
Bibliografia
Freud, S. (1915); “Lutto e melanconia”, in “Metapsicologia”, OSF 8, trad. it. in Bollati Boringhieri Editore, Torino, 1976.
Gabbard, G.O. (1992); “Psichiatria Psicodinamica, quarta edizione”, trad. it in Raffaele Cortina Editore, Milano, 2012.
Klein, M. (1940); “Il lutto e la sua connessione con gli stati maniaco-depressivi”, in “Scritti: 1921-1958”, trad. it. in Bollati Boringhieri Editore, Torino.
Quinodoz, J.M. (2004); “Leggere Freud; scoperta cronologica dell’opera di Freud”, trad. it. in Borla Editore, Roma, 2012.